(La Ferté Milon, Valois, 1639 - Parigi 1699) poeta tragico francese. La vita e le opere Appartenente a una famiglia di fede giansenista, e rimasto presto orfano di madre, fece i suoi studi a Port-Royal, dove eminenti ellenisti lo iniziarono alla cultura greca; così, due elementi della sua formazione, il giansenismo e l’ellenismo, finirono col caratterizzare profondamente la sua opera, sottraendola agli schemi culturali del gesuitismo latineggiante. La sua spiccata inclinazione verso l’umanesimo pagano finì per staccarlo da Port-Royal; ciò però non alterò in nulla il suo giansenismo di fondo, il suo pessimismo (sempre presente nelle sue opere) sulla natura dell’uomo, debole vittima delle passioni e del peccato se non è soccorso dalla grazia. Trasferitosi a Parigi per seguirvi studi filosofici, cominciò ad interessarsi al teatro. La famiglia allora, per distoglierlo da tale vocazione, lo allontanò da Parigi e lo inviò a studiare teologia a Uzès (1661), ove R. trascorse due anni per lui molto utili perché vi completò gli studi e cominciò a comporre. I suoi primi versi (generalmente di circostanza, per il re e la corte) furono molto apprezzati da Chapelain: R. venne presentato a Luigi XIV, e Molière accettò di rappresentare le sue prime tragedie, la Tebaide o i fratelli nemici (La Thébaïde ou les frères ennemis, 1664) e Alessandro il Grande (Alexandre le Grand, 1665), già dominate dal tema dell’amore. Il rapporto con Molière, tuttavia, si incrinò molto presto, perché R. affidò i propri testi alla compagnia rivale dell’Hôtel de Bourgogne. Nello stesso periodo, R. litigò clamorosamente con i suoi educatori di Port-Royal, inviando loro, in risposta a una disapprovazione, una lettera feroce che più tardi rimpianse di aver scritta. Il 1667 fu l’anno del suo primo capolavoro: Andromaca (Andromaque). Il decennio successivo venne dedicato alla composizione delle opere più importanti. Iniziò allora, però, un periodo non tranquillo per R., facile preda di tormentose passioni amorose: particolarmente celebri le relazioni che egli ebbe con due attrici famose dell’epoca, la Du Parc e la Champmeslé. Furono questi, inoltre, gli anni dell’ostilità con il «partito corneliano»: Corneille era allora il più grande astro teatrale, e l’astro nascente R. preoccupava molto i suoi sostenitori, tanto più che il successo di Andromaca fu strepitoso. Testi relativi a tale «querelle» sono la commedia I litiganti (Les plaideurs, 1668) e la tragedia Britannico (Britannicus, 1669), scritta appositamente per soppiantare Corneille; essa ebbe infatti un enorme successo a corte. Lo scontro diretto avvenne poi attraverso due tragedie composte su un soggetto analogo: la Berenice (Bérénice, 1670) di R., e Tito e Berenice (Tite et Bérénice) di Corneille. La tragedia di R. fu considerata superiore. Gli attacchi dei corneliani furono ancora feroci quando fu pubblicata la tragedia Bajazet (1672). Ma di fronte a Mitridate (Mithridate, tragedia del 1673) gli oppositori dovettero dichiararsi sconfitti. Il successo di R. raggiunse allora il suo culmine. L’anno successivo egli pubblicò la tragedia Ifigenia (Iphigénie). In occasione della rappresentazione della Fedra (Phèdre, tragedia del 1677), i suoi avversari organizzarono contro di lui una congiura artistica facendo comporre una tragedia sullo stesso soggetto dal giovane Pradon, cui assicurarono un successo enorme (e ben inteso abusivo) al solo fine di offuscare quello di R. Seguì una forte disputa a suon di sonetti satirici e insultanti.La «querelle» segnò un momento di trapasso nell’attività di R. Già negli anni intercorsi tra l’Ifigenia e la Fedra egli aveva maturato una profonda crisi spirituale, tanto che, nella Prefazione (Préface) della Fedra, affermava di voler ormai dipingere le passioni solo per dimostrare i disordini di cui sono causa. Dopo la Fedra poi, a 37 anni, R. si riavvicinò a Port-Royal e decise di abbandonare il teatro. Nel frattempo, sposatosi, era divenuto «storiografo di corte» insieme con Boileau, incarico che svolse da perfetto cortigiano, esaltando e glorificando l’operato del re. Il ritorno al teatro fu motivato dalle sollecitazioni di Madame de Maintenon, che lo pregò di comporre dei testi per le educande del Convento di Saint Cyr da lei fondato. R. accettò di scrivere due tragedie a soggetto biblico «da cui l’amore fosse totalmente bandito»: Esther (1689) e Atalia (Athalie, 1691): si tratta di tragedie molto importanti, che rappresentarono un rinnovamento nel suo sistema drammatico. Gli ultimi anni di vita R. li trascorse lontano dal teatro, al fianco della moglie e dei sette figli, sempre più ligio alla propria fede giansenista. Prima di morire, espresse la volontà di essere sepolto a Port-Royal.Il teatro di Racine e le passioni R. è, in campo teatrale, il miglior rappresentante della dottrina classica, le cui regole sembrano elaborate appositamente per lui, poiché egli le rispetta naturalmente, senza esserne schiavo e preoccupandosi solamente di «piacere» al pubblico. Le sue tragedie risultano così molto lineari, l’azione drammatica vi è sempre concentrata su un unico problema, la situazione è ben delineata sin dall’inizio, e la materia, ridotta al minimo, coinvolge un numero limitato di personaggi, subito presentati. L’essenzialità della vicenda è garantita dal fatto che le tragedie di R. rappresentano una crisi passionale, cioè il momento in cui passioni lungamente trattenute esplodono in tutta la loro furia: sono drammi che si svolgono entro l’animo dei personaggi. L’azione consiste nel logico crescendo dei sentimenti, fino allo scioglimento, che spesso è orribile, in ossequio alla teoria aristotelica della catarsi, ma non è obbligatoriamente di morte. L’amore è la passione tragica per eccellenza. Contro l’amore né ragione, né volontà possono nulla, esso è prodotto da una fatalità ineluttabile che scatena il più totale disordine psicologico. La gelosia è la massima manifestazione della passione irragionevole, ed è così forte da far desiderare la morte dell’amato, piuttosto che la rinuncia ad esso. In effetti, il conflitto tipico delineato da R. nell’animo dei personaggi il cui amore è ostacolato, sta nella contemporaneità di amore e odio per l’oggetto della passione: conflitto fatale per l’amato come per l’amante, poiché l’odio provoca l’uccisione dell’amato, e l’amore il suicidio dell’amante. Un pessimismo così profondo deriva a R. essenzialmente dalla formazione giansenista, in virtù della quale egli non nutre fiducia nella natura umana ed è convinto dell’ineluttabile miseria dell’uomo che, senza Dio, è perduto sin dalle premesse. Il lirismo di Racine Si è forse troppo insistito sul carattere essenzialmente lirico del genio di R.: qualcuno ha addirittura visto in lui il primo e più luminoso esempio di «poesia pura» che la Francia abbia avuto, e alcuni suoi versi sono stati spesso citati come esempi di vaga e ineffabile musicalità. Se è vero che R. portò nel teatro le qualità di un grande poeta lirico, forse il maggiore che la Francia abbia avuto, è altrettanto vero che le sue tragedie ruotano intorno a un nucleo di situazioni di cui oggi, anche con l’aiuto delle teorie psicoanalitiche, possiamo meglio penetrare la coerenza e la violenza: situazioni nelle quali, secondo il suggerimento di R. Barthes, sotto «la purezza della lingua, le grazie dell’alessandrino, la precisione della psicologia, il conformismo della metafisica» non è difficile ritrovare «le figure e le azioni dell’orda primitiva», l’incesto, la rivalità tra fratelli, l’uccisione del padre, la rivolta dei figli. Poeta della passione, del fato e della debolezza umana, R. è anche e soprattutto il poeta dei rapporti di sangue, di autorità e di concupiscenza. Egli destoricizza la tragedia, situandola su sfondi altamente convenzionali, e nello stesso tempo la investe di una carica erotica che non ignora le più segrete e ambigue sfumature. Che una materia tanto terribile si sia espressa in una forma così fluida e musicale e nel rispetto di regole così proporzionate e severe costituisce il vero «miracolo» del teatro di R.